mercoledì 20 maggio 2015

La Sindone raccontata da Paolo Barosso

Carissimi fratelli e sorelle, quest'oggi ho letto un bellissimo articolo di Paolo Barosso sulla Sindone che mi ha fatto apprendere cose che non conoscevo.
Qui di seguito vi riporto il citato articolo nella speranza che vi faccia il bene che ha fatto a me.
"La Sindone, dal greco sindon, secondo la tradizione il lenzuolo che avvolse il corpo di Cristo dopo la deposizione dalla croce, è considerata da secoli la reliquia più importante della Cristianità. Per chi crede nell’autenticità del Sacro Lino, La Sindone appartiene al novero delle immagini acheropite, non disegnate da mano umana, ma prodottesi per effetto d’una forza soprannaturale. A questa categoria appartengono anche il Mandylion di Edessa, dal greco fazzoletto o asciugamano, che recava l’impronta del volto di Cristo, il velo della Veronica (da alcuni identificato con il Volto Santo di Manoppello in Abruzzo), e il Sudario di Oviedo, che sarebbe stato utilizzato per fasciare la testa di Gesù e che mostrerebbe, secondo recenti studi, parecchi punti di contatto con il volto sindonico. 
Il Mandylion, custodito per secoli a Bisanzio, assume rilevanza perché lo studioso Ian Wilson, in contrasto con la tradizione (che vede nell’impronta il volto di Gesù da vivo), lo identifica con la Sindone torinese, basandosi sulle fonti che descrivono una particolare modalità di conservazione del telo di Edessa ripiegato in otto parti (tetradiplòn). Tale ripiegatura sembra incoerente con le dimensioni del Mandylion che, stando alla tradizione, era un semplice fazzoletto. Dunque è verosimile immaginare, secondo Wilson, che il Mandylion non fosse altro che il telo sindonico, piegato in otto parti in maniera tale da rendere visibile solo l’impronta del volto di Gesù. Sul punto, comunque, non vi è certezza perché le vicende della Sindone antecedenti la sua comparsa in Europa, a metà del XIV secolo, sono ricostruibili in modo frammentario ed ipotetico. 
Il rapporto tra la Sindone e Casa Savoia affonda le radici nel 1453 quando la nobildonna francese Margherita di Charny, ospite alla corte di Chambéry, ne fece dono ad Anna di Lusignano, figlia del re di Cipro, forse in cambio della riabilitazione di un cugino, François Varembon, condannato dal duca di Savoia alla confisca dei beni e all’esilio. Alla morte di Anna di Cipro, moglie di Ludovico di Savoia, la Sindone passò al marito, e da questi ai suoi discendenti, rimanendo poi alla casata sino a re Umberto II. Secondo la ricostruzione più attendibile, la Sindone sarebbe stata custodita per secoli a Bisanzio, dove al principio del Duecento un cronista franco, Robert de Clari, testimoniò di averla veduta nel monastero delle Blacherne. È probabile che nel sacco di Bisanzio del 1204 la Sindone, insieme con altre reliquie, sia stata trafugata e portata in Occidente, dove compare nel 1353 nelle mani d’un cavaliere francese, Geoffrey di Charny, che fece costruire una chiesa a Lirey, nella Champagne affidando la custodia della reliquia ai canonici. Che la Sindone fosse in suo possesso è attestato da un medaglione votivo ritrovato a bordo Senna nel 1855 e databile verso il 1350, su cui sono incise le arme di Geoffrey di Charny e della moglie, Jeanne de Vergy, con un’immagine della Sindone. Uno Charny comparve anche sul rogo dei capi Templari a Parigi accanto al Gran Maestro dell’ordine, Jacques de Molay, condannato a morte per volere di Filippo il Bello, ed è facile ipotizzare un legame di parentela tra i due, soprattutto tenendo conto della fama acquisita in Terra Santa dai monaci del Tempio come procacciatori e autenticatori di reliquie. 
Il passaggio della Sindone ai Savoia fu per la dinastia un momento di grande importanza, soprattutto alla luce del ruolo che il culto delle reliquie acquisì nelle relazioni tra corti europee a cavallo di Cinque e Seicento. La devozione cristiana, per le dinastie regnanti, non era solo fonte di legittimazione del potere, ma anche modus vivendi et operandi, e il prestigio di una casata si considerava direttamente proporzionale sia al numero di santi e beati annoverabili tra gli antenati (non a caso Carlo Emanuele I promosse la causa di canonizzazione di Amedeo IX di Savoia), sia alla quantità e qualità delle reliquie possedute. 
Ne derivò un’affannosa ricerca di reliquie compiuta in giro per l’Europa da emissari di principi e regnanti, che le collezionavano riservando appositi spazi nelleWunderkammer, le camere della Meraviglie, allestite sin dal Cinquecento nelle corti occidentali radunando mirabilia, oggetti capaci di suscitare stupore, curiosa, reperti stravaganti e rari, e anche oggetti devozionali. In questo campo i Savoia godettero di un vantaggio competitivo rispetto ad altre dinastie, perché potevano esibire due tra le più importanti reliquie dell’Occidente cristiano: il corpo di San Maurizio, comandante della Legione Tebea martirizzato nel 286 d.C. ad Agaunum nel Vallese svizzero (dove più tardi si fondò la prestigiosa abbazia di Saint Maurice, luogo d’incoronazione dei re burgundi), ora custodito nel Duomo di Torino, e appunto la Sindone
La Sindone venne trasferita da Chambéry a Torino nel 1578, sia per allontanarla dalle minacce dei calvinisti iconoclasti di Ginevra, sia per avvicinarla alla corte, e qui (prima che si provvedesse a far costruire la celebre cappella guariniana) venne custodita per lungo tempo nel presbiterio della Cattedrale, in uno spazio appositamente allestito per consentire ai Savoia l’accesso diretto alla reliquia senza la mediazione rituale del clero. Ponendo la Sindone nel Duomo, ma isolandola dal contesto, si voleva evidenziare che la reliquia, pur appartenendo all’universo devozionale torinese e dei sudditi sabaudi (su richiesta di Carlo Emanuele I la festività della Sindone, limitata alla Savoia, venne estesa dal 1582 anche ai territori piemontesi), rimaneva di pertinenza della dinastia, segno del favore divino sulla Casata. 
I Savoia promossero il culto della Sindone anche all’estero, come strumento di celebrazione dinastica, sia attraverso la divulgazione di testi devozionali come la Sindon Evangelica, collage di scritti sulla reliquia tra cui spicca il poemetto Sindon di Filiberto Pingone, sia autorizzando la produzione di copie del telo sindonico, consacrate e date in omaggio a principi e potenti d’Europa. La pratica si basava su una visione quasi “materica” dell’energia insita nella reliquia, percepita come qualcosa di tangibile in grado di trasferirsi dall’originale alla copia. Sin dal Medioevo si manifestò una ricerca quasi ossessiva del contatto fisico con le reliquie di santi e martiri, come se l’energia mirabile (dynamis) di cui (anche secondo il diritto canonico) sono dotate potesse travasarsi, al semplice tocco, verso il corpo del fedele, producendo effetti terapeutici e protettivi, al confine tra sacralità e magismo. 
Si provvide quindi in più occasioni a produrre copie, spesso a grandezza naturale, della Sindone, sovrapponendo poi, durante le Ostensioni, la replica all’originale, in maniera tale che la copia, assorbendo in parte le proprietà magico-sacrali attribuite al telo, divenisse essa stessa reliquia per contatto. Il numero di riproduzioni era limitato, per timore che le energie si disperdessero, compromettendo il prestigio della Sindone, e di queste repliche si trovano esemplari in giro per l’Europa, persino in Québec e in Messico, territorio che appartenne agli Asburgo, noti collezionisti di reliquie". (Fonte: "Il Bicerin")
Carissimi fratelli e sorelle, se non siete ancora andati, quando visiterete la Santa Sindone, pregate anche un po' per me povero peccatore.
Un abbraccio, Andrea Elia Rovera.

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